Cominciamo da una base… sicura!
“Chi ben comincia é a metà dell’opera”, un detto che ben riassume la teoria dell’attaccamento di J. Bowlby, cosi importante oggi in ambito psicoanalitico. Secondo questa teoria le prime esperienze con le nostre figure di riferimento sono fondamentali per la costruzione di una base sicura e quindi di un modello di interazione.
Qui di seguito riporto una parte di un articolo della Dr.ssa Franca Tani in cui a mio avviso questa teoria é ben riassunta e spiegata.
Buona lettura!
I LEGAMI DI ATTACCAMENTO FRA NORMALITA’ E PATOLOGIA: ASPETTI TEORICI E D’INTERVENTO
Franca Tani
La teoria dell’attaccamento di John Bowlby costituisce ad oggi il modello teorico più completo ed articolato a cui far riferimento per comprendere e spiegare i meccanismi psicodinamici che sottendono i processi evolutivi, sia normali che patologici. Si tratta di un paradigma in rapida e continua evoluzione, di un corpo vasto e complesso. La stessa opera di Bowlby, che pure aveva la capacità di esporre in modo lucido e proficuo i suoi punti di vista, è di una vastità scoraggiante o, per dirla con Rycroft (1985), “di una monumentalità vittoriana”.
Dovendo quindi fare una scelta obbligatoriamente riduttiva, cercherò pertanto di mettere a fuoco soltanto alcune questioni che possano rappresentare una buona integrazione fra gli aspetti storici, le successive applicazioni sperimentali e di ricerca e le più recenti evoluzioni e prospettive cliniche e di intervento. In particolare, cercherò di chiarire le radici storiche della teoria dell’attaccamento ed esaminare soprattutto le basi biologiche dei comportamenti istintivi di attaccamento, che guidano la formazione di quel particolare tipo di legame psicologico, di attaccamento appunto, che si instaura fra il bambino e il suocaregiver.
Affronterò successivamente gli aspetti più squisitamente psicodinamici della teoria, quelli attinenti ai processi e ai meccanismi che sono alla base della trasmissione intergenerazionale e che aiutano a comprendere in che modo le prime modalità relazionali che caratterizzano il legame fra il bambino e il suo caregiver vengano successivamente interiorizzate dal bambino stesso fino a costituire degli aspetti fondanti nella costruzione del Sé e delle successive relazioni che questi svilupperà nel corso del suo sviluppo.
1. Le radici storiche della teoria dell’attaccamento
Terminati gli studi in medicina presso la prestigiosa università di Cambridge, Bowlby entra a far parte negli anni trenta di una delle più tradizionali Società Psicoanalitiche affiliate all’International Psychoanalytical Association, quella britannica, in un periodo storico decisamente “caldo” e denso di controversie. La società psicoanalitica britannica è infatti all’epoca lacerata dalle due opposti orientamenti, quello della teoria pulsionale e quello della teoria delle relazioni oggettuali che facevano capo, rispettivamente ad Anna Freud e Melanie Klein, ambedue, seppure con approcci teorici e tecnici contrapposti, prevalentemente orientate sugli aspetti intrapsichici dell’esperienza infantile.
La teoria pulsionale ipotizzava che il legame che unisce il bambino alla madre è la libido.
Per Freud il bambino appena nato vive in uno stato solipsistico di “narcisismo primario” e sperimenta una crescita di tensione in relazione al bisogno di nutrimento. La madre, che fornisce per il tramite del seno il veicolo per la scarica di questa libido, diventa oggetto di amore del bambino per la sua capacità di attenuare, con la sua presenza e disponibilità, la tensione che altrimenti crescerebbe fino a diventare un vero e proprio stato di angoscia.
In realtà Freud modificherà nel corso del tempo questa prima teoria dell’angoscia e del legame e in Inibizione, sintomo e angoscia (1926) introdurrà il concetto di “angoscia segnale”: l’angoscia diventa il segnale di pericolo che il bambino sperimenta ogniqualvolta si prefiguri una separazione, reale o minacciata, “da qualcuno che è amato e desiderato”.
Tuttavia, il substrato primario di questo amore resta per Freud essenzialmente la soddisfazione di un bisogno fisiologico.
D’altro lato, Melanine Klein, una delle capostipiti della teoria delle relazioni oggettuali, ipotizzava l’esistenza di una relazione oggettuale primitiva all’interno della quale, oltre al massimo rilievo ancora dato al cibo, all’oralità e al seno come primo oggetto libidico, assume un significato straordinario l’istinto di morte. La prima relazione con la madre viene descritta come pervasa dall’invidia primitiva, da fantasie sadiche, da meccanismi di proiezione che provocano precoci distorsioni percettive dell’altra persona significativa. In altre parole, in questo contesto teorico la maggior parte dei processi psichici sono considerati autogeni e la vita interpersonale, privata di un suo proprio status, viene concettualizzata come epifenomeno di avvenimenti psichici generati internamente.
Bowlby prende ben presto le distanze da questi orientamenti teorici che valuta, entrambi, in qualche modo difettosi. Per lui, contrariamente alla psicoanalisi classica, la questione più importante non è la sessualità, ma la sicurezza. L’attaccamento è un fatto primario e non è derivato dall’oralità. In altre parole, non è più in primo piano la gratificazione orale ricevuta dal bambino, quanto piuttosto la qualità dell’accudimento, ovvero la disponibilità e la capacità di risposta materna.
Per Bowlby l’organismo umano, fin dalla nascita, non è un’entità isolata spinta dalle pulsioni in cerca di un oggetto sul quale scaricare la tensione accumulata, ma una persona in relazione ad altre persone. Sistemi omeostatici e altri controlli cibernetici controllano il suo comportamento, proprio come avviene per le altre specie di mammiferi. La relazione con il mondo di ogni individuo è determinata non solo da fantasie inconsce, ma anche da modelli operativi interni che includono elementi affettivi, cognitivi e comportamentali legati alla sua esperienza.
Ma soprattutto, quello che Bowlby rimprovera alla psicoanalisi è la mancanza di interesse per l’osservazione diretta di bambini.
Sullo sviluppo del suo pensiero furono a questo proposito determinanti il suo lavoro come psichiatra infantile alla Child Guidance Clinic di Londra, ma anche la decennale esperienza come direttore del “Dipartimento per i bambini e i genitori” della Tavistock Clinic di Londra, a partire dal 1946, cui si affiancò una ricca attività di ricerca condotta in collaborazione con i coniugi Robertson, e, infine, la nomina di consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità con l’incarico di redigere un rapporto sulla salute mentale dei bambini abbandonati.
L’insieme di queste esperienze consentì a Bowlby di raccogliere un’ampia documentazione clinica, rafforzando la sua convinzione che l’origine della psicopatologia fosse da ricercarsi nelle esperienze reali della vita interpersonale e di orientare il suo interesse, fin dall’inizio, sullo studio della natura di quel legame, potente e duraturo, che si stabilisce precocemente tra l’individuo che cresce e coloro che ne hanno cura, portandolo nel tempo a formulare una vera e propria teoria dell’attaccamento, sistematicamente espressa nella trilogia Attaccamento e perdita (1969; 1973; 1980).
L’impulso che spinse Bowlby a formulare questa teoria derivava dalle scoperte relative ai pervasivi effetti patologici che si evidenziavano in bambini istituzionalizzati o ospedalizzati per lunghi periodi in seguito alla separazione dalla famiglia ed alla discontinuita’ delle figure assistenziali, emersi con sconcertante evidenza dagli studi di Spitz sulla la sindrome dell’ospedalismo (1945) e sulla depressione analitica, e da quello da lui stesso condotto in collaborazione con Robertson (Robertson e Bowlby, 1952).
2. Le basi biologiche dell’attaccamento
Per spiegare perché la perdita della madre colpisse così tanto i bambini, Bowlby si rivolse alle scoperte che parallelamente venivano da un’altra disciplina scientifica, l’etologia, e in particolare, dai lavori di Lorenz (1963) e dalle sue osservazioni sul fenomeno dell’imprinting. Lorenz aveva osservato che i piccoli delle oche mostrano, alla nascita, una risposta di seguitazione che li porta a seguire il primo oggetto in movimento, in genere la propria madre, e a mostrare reazioni simili all’angoscia (pigolii, ricerca affannosa) quando sono separati da questo. Tali comportamenti si attivano indipendentemente dal fatto che l’oggetto fornisca, o meno, loro del cibo.
Bowlby, tuttavia, si ricollegò soprattutto agli esperimenti che Harlow, ispirandosi al lavoro pionieristico di Spitz, aveva condotto sui macachi, allestendo una situazione sperimentale in cui, alla nascita, i piccoli macachi venivano allontanati dalle proprie madri e allevati da madri “surrogate”. Questi surrogati materni erano di due tipi: alcuni erano costruiti di filo metallico nudo, ma dotati di un biberon pieno di latte; altri erano invece rivestiti di tessuto morbido, ma senza biberon.
Le osservazioni condotte da Harlow confermarono la preferenza dei piccoli per la madre “morbida”, che non forniva latte, mostrando come un caldo contatto fosse più importante
per i piccoli del bisogno stesso di cibo. Inoltre, in presenza di stimoli particolari che elicitavano in loro reazioni di paura, le scimmiette tendevano, ancora una volta, a correre a rifugiarsi e ad aggrapparsi alla madre di stoffa (Harlow, 1958).
Gli studi di Harlow mostrarono infine che il legame che si sviluppa fra il piccolo primate e la madre dura nel tempo, che la rottura di questo legame provoca disturbi psicologici e che il comportamento di attaccamento nel piccolo si manifesta attraverso i suoi tentativi di ricercare la vicinanza, ovvero attraverso condotte come il succhiare, l’aggrapparsi, l’imitare la madre o il seguirla con lo sguardo e il movimento.
Nei casi in cui la madre dà risposte adeguate, il piccolo sviluppa un forte senso di sicurezza, mostra curiosità, comportamenti di esplorazione, capacità di progressiva autonomia e, successivamente, indipendenza e competenza relazionale. La deprivazione delle cure materne provoca, al contrario, effetti drammatici e pervasivi: le scimmie cresciute senza madre tendono ad essere più ritirate, ad aggrapparsi fra loro e, se poste in isolamento totale, anche a restare accovacciate e a dondolarsi stereotipicamente. Harlow riteneva inoltre che, nei primati, la formazione di saldi legami affettivi tra pari fosse alla base del controllo dell’aggressività (Harlow e Mears, 1979).
Sostenuto dagli studi di Harlow sulla natura confortante dell’attaccamento alla madre, Bowlby arrivò a confutare quello che lui definiva “l’amore interessato delle relazioni oggettuali”, secondo cui il bambino si attacca alla madre perché questa soddisfa alcuni suoi bisogni fisiologici come quelli di cibo e calore (Bowlby, 1969). Egli inserisce cioè le sue idee nel pensiero psicoanalitico, respingendo però la metapsicologia tradizionale, alla quale sostituisce un paradigma nuovo basato sulla psicologia evolutiva e sulla etologia.
La sua teoria dell’attaccamento, nata all’interno delle formulazioni psicoanalitiche relative ai vissuti di separazione e di perdita, integra infatti fin dalle prime formulazioni, importanti aspetti delle nuove discipline emergenti, quali l’approccio etologico, che collocava il comportamento in un’ottica evoluzionistica; la psicobiologia e lo studio dei processi neurofisiologici, endocrini e recettoriali, che interagiscono con gli stimoli ambientali al fine di attivare e disattivare i sistemi comportamentali; la teoria dei “sistemi di controllo”, che dirige l’attenzione alla “programmazione interna” ed, infine, la teoria piagetiana di approccio strutturale allo sviluppo cognitivo.
3. La teoria dell’attaccamento
Basandosi su osservazioni del legame madre-figlio nei primati non umani, oltre che su quelle derivate dalla sua pratica clinica, Bowlby arriva a teorizzare che il bambino possiede una “predisposizione biologica” a sviluppare un legame di attaccamento nei confronti di una sola persona, quella che si prende cura di lui (monotropismo). Tale predisposizione è geneticamente determinata e filogeneticamente trasmessa perché funzionale alla sopravvivenza dell’individuo e della specie. La separazione del piccolo dalla madre può infatti comportare conseguenze fatali in molte specie animali.
Per spiegare come l’attaccamento formi un sistema organizzato, Bowlby si rifà alla teoria dei sistemi di controllo tratta dall’ingegneria, secondo cui i sistemi di controllo sono orientati allo scopo ed usano meccanismi di feed-back per regolare il sistema al fine di raggiungere questo scopo.
Secondo Bowlby, l’attaccamento può essere definito come un sistema comportamentale di controllo orientato allo scopo (Goal corrected control system), ovvero come un’organizzazione interna all’individuo, il cui obiettivo primario è quello di mantenere o ricercare la vicinanza ed il contatto con una determinata persona, considerata appunto la figura di attaccamento. Più in generale, l’attaccamento e, per converso, la paura del nuovo e dell’estraneo, viene interpretato come sistema motivazionale primario, la cui funzione fondamentale è quella di mantenere una condizione relativamente stabile fra l’individuo e il suo ambiente, garantendo l’equilibrio fra una condizione esterna di sicurezza e una condizione interna di sentirsi sicuro.
Il lungo periodo di immaturità tipico della specie umana rappresenta una fase di vulnerabilità durante la quale il bambino deve essere protetto per poter sopravvivere. Da questa considerazione nasce la deduzione di Bowlby che i cuccioli umani debbano essere forniti di un sistema comportamentale relativamente stabile che opera per promuovere la vicinanza al care-giver principale – in genere la figura materna – e che è sufficiente a facilitare la protezione genitoriale. Questo sistema – il comportamento di attaccamento – sinergizza con un sistema comportamentale complementare dell’adulto – il comportamento materno – che ha la stessa funzione. Bowlby definisce “figura materna” la persona che è primariamente responsabile della cura del bambino.
Questo sistema di attaccamento, proprio per la sua funzione protettiva nei confronti dei pericoli ambientali, non è sempre attivo, ma resta silente in tutte quelle situazioni sicure in cui il bambino percepisce l’ambiente circostante come noto e la figura di attaccamento come presente e responsiva. In questi casi si rende possibile l’attivazione di altri sistemi comportamentali antitetici, quali ad esempio il comportamento esplorativo, che consentono al bambino di conoscere l’ambiente, in presenza e con la disponibilità emotiva della figura materna.
Esistono tuttavia molteplici cause, interne ed esterne al bambino, che rappresentano una possibile minaccia e determinano di conseguenza l’attivazione del sistema di attaccamento. Accanto ad una serie di fattori organici (gli ormoni, l’arousal, la stimolazione totale che agisce sull’organismo in un determinato momento, etc.), sono identificabili dei fattori ambientali (l’assenza o l’allontanamento della figura di attaccamento, i suoi comportamenti di rifiuto o di mancanza di responsività ed in generale qualunque evento allarmante, incluse le situazioni poco familiari o la presenza di estranei) e infine dei fattori che potremmo definire interni al bambino (malattie, rabbia, fame, dolore, freddo, etc.) che determinano una rapida attivazione del sistema che si traduce comportamentalmente in una immediata ricerca della vicinanza e del contatto con la figura materna. La disattivazione del sistema si realizza non appena il bambino raggiunge il suo scopo.
L’organizzazione di questo sistema comportamentale comincia nelle fasi precoci della vita e raggiunge la sua piena maturazione al termine del primo anno.
Come si vede, quindi, il punto centrale della ricerca sull’attaccamento è per Bowlby lo studio dei fattori relazionali che portano gli esseri umani, particolarmente negli anni della loro formazione, su di un percorso evolutivo ottimale o sub-ottimale. L’attaccamento, nella sua formulazione originale, non è una costruzione intrapsichica, ma una costruzione relazionale in cui la persona ed il contesto sono considerati inseparabili.
Due sono quindi le ipotesi centrali nella costruzione teorica di Bowlby. In primo luogo che lo stile di attaccamento che il bambino sviluppa dipende strettamente dalla “qualità” delle cure materne ricevute. In secondo luogo che lo stile dei primi rapporti di attaccamento influenza in misura considerevole l’organizzazione precoce della personalità e soprattutto il concetto che il bambino avrà di sé e degli altri. Entrambe queste ipotesi sono state ampiamente convalidate dalle ricerche empiriche.
4. La Strange Situation e le tipologie dell’attaccamento
E’ stata indubbiamente Mary Ainsworth, una dei più stretti collaboratori di Bowlby, che ha contribuito in modo rilevante alla verifica empirica della proposta teorica bowlbiana, attraverso la messa a punto di una procedura semi-sperimentale per la raccolta dei dati: la Strange Situation.
La Strange Situation, “dramma in miniatura in otto parti” per madre, bambino di un anno e sperimentatore, come l’ha definita la Bretherton (1991), è una procedura di laboratorio
che permette di esaminare il comportamento di attaccamento, il comportamento esplorativo e il comportamento affiliativo. Si tratta di una procedura standardizzata per le madri ed i loro piccoli che è insieme naturalistica e valutabile in modo affidabile.
Sulla base di numerose osservazioni condotte con questa procedura, la Ainsworth identificò inizialmente tre principali pattern di risposta, o tipologie fondamentali di attaccamento. Tali tipologie sono:
1.Attaccamento sicuro (B):
un bambino il cui attaccamento è sicuro, gioca con i giocattoli, mostra segni di disagio quando la madre esce dalla stanza, interrompendo il suo comportamento di gioco o di esplorazione e sollecitando in qualche modo una riunione.
Quando la madre ritorna, egli viene confortato facilmente, si tranquillizza e torna a giocare. Statisticamente la metà circa dei bambini osservati si comporta in questo modo.
Si tratta di bambini che hanno fatto esperienza nel primo anno di vita di una madre “sensibile e responsiva”, in grado di riconoscere e rispondere adeguatamente alle loro richieste.
2. Attaccamento insicuro-evitante (A).
Appartengono a questa categoria i bambini che evitano la vicinanza stretta con la madre, quando lei è presente, e che non piangono, né mostrano apertamente disagio quando lascia la stanza. Quando la madre rientra, inoltre, questi bambini evitano decisamente ogni contatto con lei e durante tutta la procedura sembrano più attenti agli oggetti inanimati che agli avvenimenti interpersonali.
Statisticamente, tale tipologia di bambini costituisce circa un quarto del campione globale.
Questo tipo di comportamento viene interpretato come il risultato di meccanismi di difesa:
il bambino si volge agli oggetti piuttosto che agli esseri umani, nasconde il suo disagio ed evita la vicinanza per tenere sotto controllo il sentimento di avere bisogno che, nelle sue previsioni, non potrà comunque essere soddisfatto adeguatamente (Ainsworth, 1978; Main e Stadtman, 1981). Alla base di questo atteggiamento vi sarebbe, sempre secondo la Main, uno “spostamento organizzato dell’attenzione” dalla madre all’ambiente inanimato.
Tale comportamento avrebbe il vantaggio di consentire un’organizzazione continua e forse anche di permettere il mantenimento della maggior vicinanza possibile con la madre (Main, 1981; Main e Weston, 1982).
3. Attaccamento insicuro-ambivalente (insicuro-resistente) (C).
Questa tipologia rappresenta circa il 10% del campione totale. Si tratta di bambini che mostrano un grande disagio durante tutta la registrazione, in molti casi, addirittura, prima della separazione dalla madre, fin dal momento d’ingresso in un ambiente sconosciuto o all’entrata dell’estranea. Quando la madre rientra, dopo l’allontanamento, essi cercano di riunirsi a lei e di essere consolati, ma possono anche mostrare rabbia e passività; tendendo a piangere in modo inconsolabile, senza riuscire a riprendere l’esplorazione. Le basi di questo comportamento sembrano risiedere nell’esperienza d’interazione con un genitore che risponde in modo imprevedibile alle richieste del bambino e che risulta quindi potenzialmente inaffidabile nei momenti di difficoltà. In questi casi, il bambino si trova pertanto nella necessità di “estremizzare” i propri comportamenti di attaccamento ed appare quasi completamente assorbito dalla figura di attaccamento e dai luoghi circostanti ad essa.
Successivamente un gruppo di studio formatosi a Berkeley e composto da Mary Main, Judith Salomon e Donna Weston, classificò un quarto tipo di attaccamento, che fu chiamato disorganizzato-disorientato (Main e Weston, 1981; Main e Solomon, 1990).
4. Attaccamento Disorganizzato (D)
Questa categoria è stata individuata partendo dalla considerazione che alcuni bambini, provenienti sia da campioni a basso che da ad alto rischio, risultavano “inclassificabili” secondo il sistema messo a punto dalla Ainsworth (Crittenden, 1985; Egeland e Sroufe, 1981; Radke-Yarrow et al., 1985; Spieker e Booth, 1985). Si tratta di bambini, per esempio, che durante l’assenza della madre piangono e la ricercano attvamente per poi rimanere in silenzio, evitarla ed ignorarla apertamente al momento della riunione. Altri bambini si avvicinano alla madre e quindi, dopo aver stabilito il contatto con lei, si scostavano bruscamente e rimanevano immobili al centro della stanza, come “congelati” (freezing). Tali pattners comportamentali, che costituiscono un misto peculiare e inclassificabile di comportamenti evitanti e resistenti, presentano notevoli analogie con quei comportamenti che gli etologi definiscono “conflittuali”, vale a dire comportamenti che derivano dall’attivazione simultanea di sistemi incompatibili (Hinde, 1970). Le ricerche più recenti hanno ampiamente documentato come questa categoria sia particolarmente numerosa nei campioni ad alto rischio, caratterizzati da basso livello socio-culturale, psicopatologia genitoriale, trascuratezza, maltrattamento e abuso, di tipo fisico e sessuale. (Main e Hesse, 1990).
5. La continuità degli stili di attaccamento
La possibilità di misurare la qualità della relazione madre-bambino, derivante in linea diretta dalle osservazioni di Bowlby e della Ainsworth, è stata notevolmente incrementata dal lavoro innovativo dei cosiddetti baby watchers (Stern, 1985; Tronick e Gianino, 1986; Beebe e Lachman, 1994; Beebe, Lachman e Jaffe, 1997; Steele, 2003). Gli studi di tali autori hanno documentato la sostanziale continuità del percorso evolutivo, dalla valutazione che si registra con la Strange Situation nel primo anno di età, alle variabili di sviluppo cognitivo e sociale nella seconda infanzia, in età scolare o di latenza, nell’adolescenza e, più recentemente, anche nell’età adulta. In particolare Mary Main (Main e Goldwin, 1985) e i suoi collaboratori hanno condotto uno studio longitudinale in cui hanno ri-valutato, a distanza di 5 anni (quando cioè i bambini avevano sei anni), un gruppo di bambini che erano stati sottoposti alla Strange Situation all’età di dodici mesi, allo scopo di valutare la stabilità nel tempo della qualità e del tipo della loro relazione di attaccamento. L’analisi dei dati ha permesso di verificare che la valutazione del modello di attaccamento rilevata ad un anno di età con la Strange Situation risultava fortemente predittiva (r = .59). Ad analoghe conclusioni sono giunte indagini longitudinali condotte in Germania agli inizi degli anni Novanta (Spangler e Grossmann, 1993) e più recentemente altri tre studi che hanno correlato la valutazione delle strategie di attaccamento fatta durante la Strange Situation quando i soggetti avevano 12 mesi con le classificazioni rilevate attraverso l’Adult Attachment Interview raccolta 20 anni più tardi (Waters, Merrick, Treboux et al., 2000; Hamilton, 2000; Weinfeld, Sruofe e Egeland, 2000). Tutti e tre questi studi hanno dimostrato alti livelli di continuità degli stili di attaccamento nel corso del tempo.
Inoltre un gran numero di ricerche empiriche ha ampiamente documentato la sostanziale continuità fra comportamenti e atteggiamenti materni e sviluppo del bambino. Madri che hanno comportamenti sintonici verso i propri figli, che forniscono loro una costante fonte di affetto, una base sicura per l’esplorazione dell’ambiente e un punto di riferimento fermo che li aiuta ad affrontare sepazioni e angosce, hanno figli ben adattati socialmente, capaci di dare valutazioni adeguate di sé e degli altri e di rispondere in modo adattivo alla separazione. Al contrario, i figli di madri che svolgono il loro ruolo in maniera carente e inadeguata, che si mostrano resistenti al contatto fisico e incapaci di far fronte ai bisogni e alle angosce del bambino, tendono a sviluppare poca fiducia in sé e negli altri, scarsa capacità di valutare in modo realistico sé stessi e le situazioni e una bassa competenza sociale, che si esprime, a seconda dei casi, con l’isolamento o con esplosioni di rabbia ingiustificata (cfr. sull’argomento, Cassidy e Shaver, 1999).
A partire dalla forte convergenza di questi risultati, l’interesse principale, teorico, clinico e di ricerca, degli studiosi dell’attaccamento si è successivamente rivolto all’approfondimento dei processi e meccanismi che sono alla base della trasmissione integenerazionale di caratteristiche normali e patologiche fra genitori e figli.
6. I modelli operativi interni
All’interno di questo ambito di ricerca, ricopre un ruolo fondamentale il costrutto di Modelli operativi interni – Internal Working Models-, che permette di comprendere i complessi processi attraverso cui gli schemi relazionali di attaccamento tendono sempre più a diventare patrimonio mentale del bambino stesso.
Dal punto di vista teorico-clinico, il costrutto di modelli operativi interni formulato da Bowlby nel 1969, rappresenta un’importante rielaborazione del concetto freudiano di “coazione a ripetere” (Freud, 1920), con cui Freud esprime uno dei principi cardine della teoria psicoanalitica: gli adulti ricreano nei rapporti interpersonali della propria vita le esperienze di relazione della prima infanzia. La continuità e la ripetizione delle relazioni implicano l’esistenza negli individui della capacità di interiorizzare e perpetuare modelli di relazione.
Sviluppando questa fertile intuizione freudiana, Bowlby fornisce un’interessante ipotesi interpretativa di tale processo: la ripetizione delle relazioni si verifica perché l’esperienza interna ed il comportamento nelle relazioni sono strutturati secondo modelli operativi interni o modelli rappresentazionali del Sé, della figura di attaccamento e, per estensione, degli altri.
In particolare Bowlby ipotizza che gli esseri umani possiedano, all’interno della loro mente, due diversi tipi di modelli del mondo circostante che consentono loro predizioni corrette e manipolazioni adeguate sull’ambiente: un modello “ambientale”, che informa sulle cose e sugli aspetti del mondo circostante, e un modello “organismico”, che riguarda l’individuo nei suoi rapporti con gli altri e con l’ambiente. In entrambi i casi, quello che l’individuo sviluppa e si porta dentro è una mappa di come vede e percepisce sé stesso, gli altri e le sue relazioni. Secondo le stesse parole di Bowlby, “Ogni individuo costruisce modelli operativi del mondo e di se stesso in esso, con l’aiuto dei quali percepisce gli avvenimenti, prevede il futuro e costruisce i suoi programmi. Nel modello operativo del mondo che ognuno si costruisce, una caratteristica chiave è la nozione che abbiamo di chi siano le figure di attaccamento, di dove possano essere trovate e di come ci si può aspettare che rispondano. Similmente, nel modello operativo di se stessi che ognuno di noi si costruisce, una caratteristica chiave è la nostra nozione di quanto accettabili o inaccettabili noi siamo agli occhi delle nostre figure di attaccamento” (Bowlby, 1973).
I modelli operativi si costruiscono nel corso dello sviluppo del bambino come frutto dell’interiorizzazione di ripetute esperienze interattive, attraverso le quali egli arriva a predire la realtà, a mettersi in relazione con essa e a costruirsi opinioni su sé e sugli altri.
Secondo la teoria bowlbiana, fin dai primi mesi di vita, il bambino impara a riconoscere delle invarianti all’interno delle sue interazioni con la persona o le persone che lo accudiscono, in modo tale che, molto prima di essere in grado di esprimere significati attraverso le parole, apprende un certo numero di strategie che governano la relazione ed ha già a sua disposizione una coerente organizzazione di emozioni e di patterns di azione che vengono a costituire il suo modello operativo interno e che lo guidano saldamente verso i due compiti essenziali dell’infanzia: rimanere a contatto con le sue figure di attaccamento e imparare a crescere servendosi di esse. I modelli operativi interni, o modelli operativi interni di sé e degli altri, indicano la capacità dell’individuo d’interiorizzare e perpetuare modelli di relazione e quindi di rappresentarli.
I modelli operativi dell’individuo si basano, quindi, sulle esperienze passate, sulle aspettative relative alla disponibilità e alle probabili risposte della figura di attaccamento ai propri bisogni e, infine, sulle anticipazioni relative al proprio comportamento e al proprio Sé in relazione con la figura di attaccamento in situazioni di sconforto.
In situazioni in cui avvertono minacciata la sicurezza personale gli individui con attaccamento sicuro si aspettano che la figura di attaccamento, e più in generale gli altri, si mostreranno sensibili alle loro richieste di aiuto, disponibili a venire in loro soccorso e capaci di dare risposte adeguate alle loro esigenze. Parallelamente, svilupperanno un’immagine di sé come degni di amore, capaci di tollerare separazioni temporanee e di far fronte alle difficoltà.
Al contrario, gli individui con legami di attaccamento di tipo evitante si formeranno un modello mentale della persona di attaccamento e degli altri come assenti, rifiutanti e ostili.
Parallelamente svilupperanno un’immagine di sé come persone che non sono degne di essere amate e che, in caso di necessità, non potranno che far conto su loro stessi, attivando meccanismi difensivi di negazione del loro bisogno di cura e di affetto e rappresentandosi la realtà, a seconda dei casi, come stereotipicamente positiva o violenta.
Le persone che hanno sviluppato un legame di attaccamento di tipo ambivalente si formeranno un modello mentale della figura di attaccamento e della realtà esterna come imprevedibile, inaffidabile, subdolamente pericolosa e ostile e, parallelamente si formeranno un modello mentale di sé come vulnerabili e costantemente a rischio, incapaci di far fronte da soli alle difficoltà della vita.
Infine, gli individui con legami di attaccamento di tipo “disorganizzato” svilupperanno modelli del sé e degli altri multipli e incoerenti, tenderanno a rappresentarsi la realtà esterna come perennemente catastrofica e a vedere se stessi come persone continuamente minacciate e in pericolo e, al tempo stesso, impotenti e vulnerabili.
I modelli operativi interni costituiscono cioè degli schemi cognitivi che hanno una funzione di filtro nell’elaborazione delle informazioni che provengono dall’ambiente e che, conseguentemente, guidano il comportamento e organizzano le emozioni. Attraverso l’attivazione di processi di attenzione, di percezione e di memoria selettiva, essi fanno sì che, fra i molti segnali che gli provengono dall’ambiente, l’individuo elabori solo quelli che risultano congruenti con i modelli operativi che egli si è formato nel corso del suo sviluppo e di cui dispone al momento. Tali modelli fanno sì, inoltre, che l’individuo organizzi i propri ricordi sulla base di questi schemi.
In altre parole, i modelli operativi interni costituiscono una rappresentazione mentale dinamica, che, una volta organizzata, opera al di fuori della coscienza con funzione di filtro, strutturando e organizzando le percezioni, le interpretazioni e i significati da attribuire alle diverse esperienze, in particolar modo alle esperienze con gli altri e alle interazioni sociali. Ed è proprio questa funzione di filtro che costituisce la precondizione della loro relativa stabilità nel corso dello sviluppo.
C’è da tener presente, tuttavia, che i modelli operativi interni non sono filtri passivi, ma contribuiscono alla continua e attiva ri-creazione individuale dei modelli di relazione nel corso dello sviluppo. In altre parole, le strategie di attaccamento che il bambino sviluppa nelle prime fasi evolutive si consolidano e si strutturano nel corso del tempo in modelli mentalizzati delle relazioni. I modelli operativi rendono quindi possibile l’organizzazione della esperienza soggettiva, affettiva e cognitiva, come del comportamento adattivo. Che non si tratti solo di schemi cognitivi lo dimostra il fatto che, come abbiamo visto, in essi sono continuamente attivi gli affetti, le fantasie e le difese, consce ed inconsce.
Alla luce del costrutto di modelli operativi interni, infatti, i diversi pattern di attaccamento insicuro possono essere interpretati anche come strategie difensive nei confronti dei sentimenti dolorosi che le precedenti interazioni con la figura di attaccamento hanno fatto sperimentare al bambino. Nell’attaccamento di tipo evitante, ad esempio, il comportamento distaccato del bambino può rappresentare un tentativo di prevenire l’esperienza dolorosa legata al rifiuto ben conosciuto della madre. Analogamente, in quello di tipo ambivalente, la strategia difensiva adottata dinanzi al timore dell’abbandono può esprimersi nell’aggrapparsi alla figura di attaccamento, spesso con una forte sottomissione, e nel mostrare rabbia e aggressività quando questa cerca un ravvicinamento.
Attraverso i complessi processi che abbiamo fin qui descritto, i modelli operativi interni regolano quindi il passaggio da una gestione diadica delle emozioni e delle strategie comportamentali ad una autonoma, dando così conto del formarsi della personalità. Come suggerisce Siegel (1999), la mente si forma all’interno delle interazioni fra processi neurofisiologici interni ed esperienze interpersonali. Lo sviluppo delle strutture e delle funzioni cerebrali dipende dalle modalità con cui le esperienze, in particolare le esperienze legate agli scambi interpersonali, influenzano e modellano i programmi di maturazione.